Racconti e Poesie di Guido Rella: Un viaggio Inatteso


RACCONTI E POESIE DI GUIDO RELLA


BIOGRAFIA

Guido Rella è nato a Salerno nel 1961, ove tuttora vive. Per lavoro si reca a Capri, ove svolge la professione di laboratorista clinico presso l’ospedale civile. Ha vinto diversi concorsi di poesia, ma da qualche anno si cimenta con la narrativa, preferendo il genere di racconto breve. È membro della Accademia Internazionale di lettere, arti e scienze “Greci−Marino”. Ha pubblicato nel 1999 una raccolta di favole per ragazzi.


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UN VIAGGIO INATTESO


Li avevo sentiti litigare, chiusi nella loro stanza, una sera. Mio figlio e la moglie litigavano a causa mia. Una mattina, al mio risveglio, avevo trovato il letto bagnato ed anche il pigiama. Che umiliazione! La vecchiaia maledetta aveva colpito anche me. Era la prima volta che mi succedeva da quando ero bambino. Quello era il primo segnale dell’incontinenza. In verità mi ero accorto già da qualche tempo che la mia presenza in casa non era gradita, non da mio figlio, per carità, e nemmeno dai miei nipoti, ma mia nuora non mi sopportava più. Mi rimproverava qualsiasi cosa facessi e sbuffava sempre quando mi vedeva. Non mi regalava mai uno dei suoi splendidi sorrisi. Il pomeriggio venne il medico a visitarmi ma non mi trovò nulla di particolare. In fondo stavo bene in salute, lo ero sempre stato, però con parole dolci mi invitò a mettere il pannolone prima di andare a dormire. Chiusi gli occhi per la vergogna, ma feci di sì con la testa, indicandogli che avevo capito. Mio figlio mi comprò il pacco di pannoloni per adulti e da quel giorno, ogni sera divenne il mio tormento. Quel fagotto mi dava fastidio e mi portava calore. Dopo tre giorni mi si formarono delle piaghe alle cosce e mi bruciavano ogni passo che facevo. Il pannolone mi impicciava e mi risultava difficile anche sedermi. Stavo sempre ad aggiustarmi e quando stavo in casa, tenevo sempre il pigiama, perché mi era più facile armeggiare con quel coso, che con i pantaloni. La situazione in famiglia non era migliorata. I miei nipoti ci ridevano e ci scherzavano sopra, scimmiottando i miei movimenti goffi, con l’intento di sdrammatizzare la cosa. La sera facevamo la solita partita a scopa o a ramino, ma non vedevo serenità sui volti di mio figlio e di mia nuora. Litigavano più spesso del solito e da qualche notte mio figlio andava a dormire sul divano in soggiorno. Non era una bella situazione. Quando mio figlio si sposò, poiché la casa era grande, decidemmo sia con mia moglie, sia con sua moglie, che almeno per i primi anni di matrimonio, avrebbero abitato con noi, nel frattempo avrebbero messo dei soldi da parte per acquistare un appartamento per conto loro. Quella soluzione di comodo, invece durava ancora La convivenza non pesava e c’era armonia in casa, ma da quando ero rimasto vedovo era cambiato tutto, forse perché di me si occupava la mia povera moglie. Non ci voleva la morte di mia moglie. Un brutto male me l’aveva rubata in cinque mesi. Tenevo la sua fotografia sul comodino e ogni volta che incontravo il suo volto le inviavo un bacio ed un pensiero, regalandole una mia lacrima. Una domenica mattina, mio figlio è entrato in camera mia con il sorriso più falso cha avessi mai visto dipinto in faccia. Ho capito subito che voleva dirmi qualche cosa di brutto. Senza troppi giri di parole, mi ha comunicato che per il bene della sua famiglia, ma soprattutto per il mio bene, avevano stabilito di accompagnarmi in una casa di riposo per anziani. Nei giorni precedenti aveva fatto visita a quattro pensionati per rendersi conto di persona delle condizioni abitative e di come assistevano gli ospiti ed aveva scelto una villa in collina, con un bel panorama, dove si respirava aria pura e dove il silenzio era rotto solo dal canto degli uccellini. Si sarebbero presi cura di me sotto ogni aspetto. Lo guardai a bocca aperta, non me l’aspettavo quella che era una vera e propria cacciata. In un primo momento volevo ricordargli che quella era casa mia, comprata con i sacrifici miei e di sua madre e al limite erano loro a doversene andare via, ma la voce non mi usciva dal petto. Meno male che stavo ancora a letto, altrimenti avrei potuto cadere a terra, tanto mi sentivo svuotato. Passati i primi momenti durante i quali lui, mio figlio, il sangue del mio sangue, continuava a raccontarmi quanto era bello andare a vivere in collina, con le infermiere che mi avrebbero aiutato in tutte le mie azioni, con i medici che mi avrebbero curato ed assistito, con i nuovi amici che avrei conosciuto e coi quali avrei potuto giocare a carte, con tutte quelle stronzate che si dicono in quei casi, mi ripresi quel tanto che bastava per capire che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno in casa mia, l’ultimo giorno che avrei rivisto le mie cose, i miei oggetti, l’ultimo giorno che avrei vissuto. La valigia spuntò nelle mani di mio figlio quasi all’improvviso e si riempiva mano a mano che si svuotavano i cassetti del mio armadio. Io presi solo la fotografia di mia moglie e la avvolsi in una camicia azzurra per proteggere il vetro del portafotografie. Mia nuora non si fece proprio vedere e nemmeno venne a salutarmi sulla porta. Per lei doveva essere una nuova liberazione, la avrebbe festeggiata come il 25 aprile. I miei nipoti sentirono rumore in casa e si svegliarono. Vennero in corridoio e vedendomi pronto ad uscire di casa, con accanto la valigia, chiesero cosa stava succedendo. Il loro padre glielo spiegò con belle parole, lui sapeva parlare bene, lo avevo mandato a studiare nelle scuole migliori. Capirono subito e vennero ad abbracciarmi, assicurandomi che sarebbero venuti a trovarmi spesso. Li baciai con un morso alla gola, trattenendo le lacrime a stento, per non rattristarli. Lo “slam” che udii alle mie spalle al chiudersi dell’uscio fu come un colpo di fucile, quello che sente il condannano a morte prima di chiudere per sempre gli occhi. In auto guardavo fuori dal finestrino tutte le cose che avevo visto sempre, ma adesso mi sembravano più belle, persino il contenitore della nettezza urbana aveva un fascino diverso. Dissi addio anche a lui. Non avevo avuto nemmeno il tempo per telefonare a mia sorella o ai miei compagni di sempre. Dovevo fare presto ad andarmene di casa. Magari a quell’ora stavano già liberando la mia stanza dalle mie cose residue. Chissà perché pensai che la prima cosa che mia nuova avrebbe gettato sarebbe stato il materasso, fu la prima immagine che mi venne in mente. Ero confuso e farneticavo. Forse avevano ragione loro, probabilmente non mi ero accorto che la vecchiaia mi aveva invaso con tutti suoi effetti, forse ero diventato insopportabile, ma non me ne ero reso conto. La strada portava fuori città, verso le colline. Le case si diradavano e aumentavano gli alberi, diminuiva il cemento ed aumentava l’erba. In altre occasione mi avrebbe fatto piacere fare una gita in campagna per uno di quei pic nic domenicali, tutta la famiglia, ma adesso non era così. Quel paesaggio mi intristiva ancora più di quanto lo fossi già. Il cancello colorato di verde si aprì e mi trovai di fronte una villa a due piani circondata da un grande giardino fiorito. Alcuni anziani occupavano le panchine sparse qua e là ed una infermiera tutta sorridente mi venne incontro. Era l’unica che sorrideva, gli altri anziani avevano tutti uno sguardo spento, apatico, quasi assente e non si curavano di me che da lì a poco sarei diventato un loro compagno di dolore. Scesi dalla macchina e mi avviai verso l’ingresso a passo lento, guardandomi intorno per prendere confidenza con la mia nuova residenza. Mio figlio aveva preso la valigia e mi era venuto vicino, prendendomi per il braccio per aiutarmi negli ultimi passi prima di entrare in casa. Lo guardai negli occhi come se fosse stata l’ultima volta che lo vedevo. Era bello, alto e forte, i suoi lineamenti mi ricordavano la mia povera moglie. Gli diedi un bacio sulla guancia e ripresi a camminare, tristemente, con il capo chino. Dopo tre passi, mi sono sentito tirare le giacca all’altezza del gomito. “Risali in macchina, papà” mi disse sorridendo. “Scusami, sono stato un cattivo figlio. Ti voglio bene, torniamo a casa”. Ho tirato un lungo respiro. Aveva ragione lui, l’aria di quel posto era proprio buona ed il canto degli uccellini era bellissimo. Non mi sono voltato indietro a guardare la villa, il giardino, l’infermiera e gli altri vecchietti. Non ho guardato fuori dal finestrino, ma solo verso mio figlio e gli ho stretto la mano mentre cambiava le marce. In genere i viaggi sono felici all’andata e tristi al ritorno perché la vacanza è finita, in questo caso era stato l’esatto contrario.


Il testo scritto del racconto (inedito) è stato autorizzato a pubblicarlo in questo sito http://www.sportcinema.it direttamente dall’autore Guido Rella che ne detiene i diritti esclusivi del racconto, articolo postato da Mimmo Scafuri, Salerno 20 novembre 2008


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Racconti e Poesie di Guido Rella: Un viaggio Inattesoultima modifica: 2008-11-20T02:59:37+01:00da airone2124
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